L’America cambia strategia economica: non può più mantenere il ruolo di locomotiva globale crescendo a debito verso l’estero. Nel corso della presidenza Obama, è passato dai 2.627 miliardi di dollari del 2009 ai 7.281 miliardi del 2015. La bilancia dei pagamenti, dopo il picco negativo di -807 miliardi di dollari del 2006 ed il miglioramento dovuto alla recessione, è ritornata a peggiorare passando dai -366 miliardi del 2013 ai -463 miliardi del 2015. Un rafforzamento del dollaro, per via del ritorno alla normalità della politica monetaria, sarebbe esiziale. Il riequilibrio nelle relazioni commerciali internazionali non rinviabile: nei confronti della Germania, nel 2015 il passivo è stato di 77 miliardi di dollari; verso il Messico, di 58 miliardi. Nulla a che vedere con quello ciclopico verso la Cina, di 335 miliardi di dollari, cumulando 3.234 miliardi tra il 2003 ed il 2015.
A quasi mezzo secolo dalla crisi valutaria del 1971 l’economia reale torna al centro della azione politica: senza produzione industriale non c’è benessere, né occupazione. Gli equilibri sociali, economici e finanziari sono precari. Quelli politici tradizionali sono stravolti. Si riavvolge così il nastro della desertificazione industriale americana, segnata da quattro ondate di crisi.
La prima risale all’aumento dei prezzi del petrolio, nel ’73: la modificazione radicale dei rapporti di scambio tra manufatti e materie prime mise fine al lungo ciclo espansivo iniziato con il secondo dopoguerra. Fu poi la volta del rialzo dei tassi di interesse, negli anni Ottanta: gli Usa aprirono le danze per combattere la stagflazione, mettendo fuori combattimento migliaia di imprese che prevedevano tassi ben più contenuti. Tutti furono colpiti, anche l’Italia. Gli accordi sui cambi del Plaza e del Louvre furono insufficienti. Fu così la volta dell’abbandono della Old Economy, il mantra degli anni Novanta, che culminò con la bolla delle Dot-com, nel 2001: la New Economy non aveva mantenuto nessuna delle sue mirabolanti promesse. Gli anni Duemila si aprirono con la fase più violenta della globalizzazione, innescata dall’ingresso della Cina nel Wto: nulla fu più come prima. La competizione internazionale si basò sempre di più sul basso costo del lavoro e sulle minori tutele, nel campo ambientale e del welfare. La crescita americana fu alimentata dal debito delle famiglie, fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2008: fu l’ennesima, e la più devastante di tutte.
Occorre riallocare il lavoro sul piano internazionale, riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti correnti, facendo coincidere i luoghi della produzione con quelli del consumo, ridurre l’eccesso del risparmio nei Paesi in avanzo strutturale e quello del debito nei Paesi che macinano passivi. Solo così ci può essere stabilità economica e finanziaria.
“Sarò il più grande creatore di posti di lavoro che Dio abbia mai mandato sulla Terra”. Con queste roboanti parole il neo presidente Donald Trump ha dato il via alla nuova stagione americana, la de-globalizzazione. Le imprese automobilistiche sono entrate nel mirino: le vendite negli Usa, nel caso di nuovi impianti in Messico, saranno penalizzate con una Border Tax: la sola minaccia ha funzionato, ed in molte hanno annunciato una diversa strategia di investimento .
Il mercato non può avere come unica regola la massimizzazione dei profitti: deve rispettare un vincolo più generale, di sostenibilità nel lungo periodo, che non è solo sociale, ma soprattutto economico e finanziario. I bilanci pubblici sono ormai impari rispetto agli oneri determinati da i livelli di disoccupazione e di sottooccupazione indotti dalla globalizzazione della produzione manifatturiera e dalla innovazione tecnologica nel settore dei servizi. Anche in Europa è profonda la frustrazione che deriva dal veder naufragare i tentativi di ridare fiato all’economia reale ed alla occupazione. La Germania fa eccezione, all’apparenza: la sua economia, drogata dall’euro debole, vive contraddizioni ancora più vistose. Le risposte alle urne esprimono dappertutto un grado crescente di insoddisfazione dei cittadini.CheMentre le politiche monetarie accomodanti delle Banche centrali sono in via di esaurimento, gli Stati si trovano di fronte ad uno scenario in cui si palesa la insufficienza della strategia del workfare perseguita finora: si limitano ad assecondare il mercato, riducendo la tassazione e le regole che disincentivano gli investimenti, ivi comprese le tutele sindacali, incaricandosi di redistribuire al meglio il reddito tra i cittadini attraverso la leva fiscale. Provvedono nelle più diverse forme, dalla fornitura di un alloggio sociale fino alle facilitazioni per accedere ai servizi di trasporto o di comunicazione, a favore dei disoccupati e di coloro che sono impiegati a tempo parziale e nei settori a bassa produttività, venendo remunerati con salari inferiori al livello di sussistenza. E’ questa la soluzione adottata in Germania con le riforme Hartz, con oltre sette milioni di lavoratori che hanno solo mini-job. Negli Usa, che hanno sperimentato per primi i Mc-job, il programma di assistenza alimentare Snap è stato erogato ad oltre 44 milioni di persone. La Gran Bretagna si è opposta alla libertà di circolazione delle persone all’interno dell’Unione, votando per la Brexit, per evitare di essere sommersa dai disoccupati europei in cerca di un welfare pubblico generoso, pagato dai cittadini inglesi con le loro tasse.
Non sembra più sostenibile il paradigma in cui lo Stato è al tempo stesso tanto astensionista rispetto ai processi della produzione, quanto interventista nella distribuzione del reddito. Il limite sta nel peso crescente della tassazione e nella insoddisfazione sia di coloro che pagano imposte esose sia di coloro che sono disoccupati o sono remunerati ad un livello insufficiente. La alternativa sta nella redistribuzione del lavoro: sul piano internazionale per evitare il mercantilismo salariale, e sul piano interno con la riduzione degli orari di lavoro per rimediare alla disoccupazione tecnologica nei servizi.
L’epoca degli squilibri internazionali non è più sostenibile, neppure dalla prima potenza economica mondiale.
Siamo nuovamente in terre incognite, per una crisi politica profonda all’interno degli Usa. Donald Trump intende imporre nuove regole al mercato globale, una sfida molto più impegnativa e rischiosa di quella proclamata nel corso della sua campagna elettorale: “Make Politics Great Again!”.